successivo precedente

La lettera d'amore

 

 

Mi aveva appena mollato. Era stata una storia intensa che lei sembrava lasciarsi rapidamente alle spalle. Sosteneva che fosse perché, mentre io manifestavo alternativamente di tenere a lei e di poterne fare a meno, aveva avuto tempo per convincersi che non le interessava una storia part-time. Me lo comunicò e mi parve una liberazione – se non altro dalle sue scenate di gelosia. La settimana dopo ero distrutto.
La mia caratteristica principale è rimpiangere ciò che ho perduto anziché apprezzarlo quando ho la possibilità di viverlo; finisce così che ci metto maggior lena nella riconquista di chi era mio piuttosto che cercare di conservarlo quando la sua disaffezione verso di me non si è ancora manifestata. Stabilii di recuperare la situazione: in fin dei conti, ero riuscito una volta a fare breccia nel suo cuore; cosa mi avrebbe fermato ora che la conoscevo meglio e avevo più carte da giocarmi? Partii dalle carte che mi erano congeniali, quelle scritte con l’inchiostro della passione: composi per lei una commovente favola buffa. Il problema, adesso, era come fargliela avere. Lei scansava gentilmente ogni mio invito a incontrarci e la variante dell’“imboscata” me l’ero già giocata due o tre volte, senza peraltro scalfire la sua determinazione a evitarmi.

Era da poco andata a vivere in un palazzone con decine di appartamenti, collegato ad altri due palazzoni gemelli con altrettanti appartamenti. Ci avevo messo piede un paio d’anni prima, perché nella stessa casa all’epoca abitava un suo fratello. Mi presentai davanti alla recinzione del complesso cementizio un pomeriggio estivo, nell’ora in cui sapevo che lei era sicuramente al lavoro. Scavalcai il cancello non troppo alto. Nessuno in giro: bene. Ora c’era il problema di individuare il palazzone. Ero abbastanza certo che fosse quello centrale. Il portone vetrato, però, era chiuso, e dovevo superarlo per accedere alle cassette della posta, schierate come soldatini sull’attenti lungo la parete che fronteggiava l’ingresso. Provai ad aspettare che qualche persona entrasse o uscisse, come provvidenzialmente avviene nei film. La mia vita non è un film, colonna sonora a parte: non arrivò anima viva. Premetti tre campanelli in successione prima che qualcuno facesse risuonare lo scatto elettrico del portone. “Posta!” avevo sussurrato qualche istante prima al citofono, vergognandomi di usare questo mezzuccio. Finalmente dentro… Peccato che, delle 28 cassette – sette per piano –, nessuna riportasse il nome della mia amata, o una sigla utile a identificarla. Non mi restava che infilare direttamente la busta sotto la porta del suo appartamento.

Feci mente locale. Il piano lo raggiunsi senza esitazioni, era il secondo. La posizione del bilocale la individuai ricostruendo l’angolazione dell’abbraccio che ci eravamo scambiati a suo tempo, sulla soglia. Aprii la busta controllando nuovamente che dentro ci fosse il foglio giusto, la feci strisciare nello spazio fra la base della porta e il pavimento, rimisi a posto lo zerbino e sgusciai fuori, come un ladruncolo nella notte.
Passai le successive ore in trepidazione. Nessuna donna avrebbe potuto resistere a una lettera così toccante.

Nei giorni seguenti attribuii all’orgoglio di lei il suo insopportabile silenzio. A settimane di distanza caricai di odio la sua insensibilità, talmente sadica da spingerla a non darmi riscontro, anche solo nella forma asettica della attestazione di ricevimento.

Sette mesi dopo la rincontrai, fra le scansie di un supermercato. Direi incontro fortuito, non fosse che da quando ci eravamo lasciati lo frequentavo più di quanto frequentassi lei prima, sapendo che era il posto dove di solito faceva la spesa. Il supermercato era l’unica uscita concessa al mio ostinato ritiro casalingo nel dolore. Lei scrutò il mio carrello ignorando che la scatola tonda di biscotti danesi sarebbe stata la numero dodici nella dispensa della mia piccola cucina. Tutte blu.
«Non ti sei più fatto vivo» mi trafisse.
Dopo l’umiliazione, la presa in giro!
«E cos’altro dovevo fare, oltre a recapitarti a domicilio un pezzo della mia anima?».
Avevo letto da qualche parte che a tirare in ballo l’anima si fa spesso breccia nell’immaginario femminile. Non si aprì alcuna breccia, e nemmeno uno spiraglio: dal suo sguardo sinceramente stupito dedussi che non aveva idea di cosa io parlassi. Bastarono poche parole per definire che avevo portato la lettera nel posto sbagliato. Secondo piano! Avevo scelto l’appartamento esattamente sotto al suo.

In seguito ripensai molte volte a quell’episodio e non tanto perché convinto che un appropriato recapito ci avrebbe fatti tornare insieme; riflettevo piuttosto che era uno di quei molti equivoci banali capaci di frantumare inconsapevolmente un amore. Tanta fatica a costruirlo e un soffio di vento lo rade al suolo – o un numero civico invertito. Mi consolai considerando che forse, ora, c’era qualcuna che brandiva la mia dichiarazione d’amore giuntale per sbaglio come un messaggio stuzzicante dentro una bottiglia alla deriva. Magari quell’ignota destinataria si era innamorata di me senza neanche sapere chi fossi. Bastava solo andarle incontro.
Uscii dal supermercato e tornai fuori nel mondo a vivere, col più bel sorriso stampato addosso.

leggi il prossimo racconto