precedente

Autonomia
e cultura
in Veneto

 

Come abbia fatto Luca Zaia a diventare il presidente di Regione più votato della storia e non solo nel suo Veneto è fenomeno che sociologi e politologi hanno rinunciato a affrontare trovando, come spesso quando si parla di veneti, semplificazioni e stereotipi di comodo. La motivazione dello schiacciante 76% al terzo mandato sarebbe stata l’eccellente gestione-pandemia passata al raccolto della messe elettorale, ma a smentire questa ipotesi ci ha pensato lo stesso Zaia ricordando giustamente che i suoi consensi erano stellari già da prima – e comunque gli esiti non disastrosi del Covid-19 nella prima fase sono stati merito soprattutto del senso civico dei suoi corregionali.

Perché allora Zaia piace così tanto ai veneti? Perché è uno di loro, come loro nel modello antropologico più ricorrente, e tale immedesimazione sovrasta preferenze partitiche e appartenenze ideologiche. Uno che è venuto dal nulla – lavorava da pierre in discoteca –, si è fatto da sé esperienza dopo esperienza, è stato premiato per la cieca fedeltà alla sua azienda (la Lega Nord), è fanfarone ma non maleducato, vanesio e schietto, iperattivo come se quantità di tempo dedicato garantisse qualità dei risultati, rivoluzionario solo a parole, ha adottato il vangelo veneto “In qualche modo faremo” supplendo con la tempestività nelle emergenze a un’oculata programmazione, divulga foto di suggestivi panorami neanche fossero meriti suoi anch’essi e segnali di una speciale predestinazione della razza veneta; uno che parla volentieri il dialetto, qui metodo più di delimitare un’affinità che rimarcare una barriera tanto che molti immigrati si esprimono in veneto, ama il prosecco e frequenta sagre di ogni tipo, dà l’idea di essere raggiungibile da chiunque come qualsiasi magnanimo parón e fa leva sull’orgoglio patrio dell’alacrità indefessa. “Da noi non è normale pagare qualcuno perché resti sul divano” ha tuonato per deprecare l’assistenzialismo statale, peccato non abbia ricordato altre cose che succedono in Veneto e non sono normali: una superstrada, originariamente autostrada, progettata cinquant’anni fa e attualmente in corso con livelli di devastazione territoriale connessi all’innesto in una saturazione urbanistica irreversibile, arteria che secondo alcuni calcoli costerà nei prossimi anni quattro volte i tre miliardi iniziali preventivati ovviamente a carico dei cittadini; l’inquinamento di falda acquifera più grave in Europa grazie a Pfas e cromo esavalente allegramente sversati per decenni da incoscienti votati al profitto; la percentuale di cementificazione più alta d’Italia – record nazionale di suolo consumato anche nel 2019 –, con drammi idrogeologici a uno scroscio più forte di pioggerellina primaverile. Naturalmente le responsabilità non sono ascrivibili per intero a Zaia anche se la Superstrada Pedemontana Veneta è “merito” suo che di sicuro non l’ha bloccata, l’ininterrotto inquinamento di aria e acqua è “sfuggito” ai controlli pubblici in primis regionali, i posti letto negli ospedali sono scesi del 25% negli ultimi suoi dieci anni, la Tangentopoli del Mose per Venezia è avvenuta lui vicepresidente della Regione con la presidenza Galan; ma quel che preoccupa è il futuro, visto che nel programma elettorale zaiano non v’è traccia per esempio di investimenti nel buon governo delle acque o in previsione di crisi sismiche, e il primo punto delle sue promesse riguarda incredibilmente l’autonomia del Veneto.

Da veneto, m’inquieta che la priorità di un mondo interconnesso sia l’elogio del distacco e che in una società la cui mescolanza è ricchezza occorra ribadire un’identità – quale, poi, visto che ogni campanile fa nazione a sé e parla una sua lengua veneta?

Fino alla caduta della Repubblica Serenissima (1797), il Veneto è stato il trionfo del cosmopolitismo, era l’incrocio di tutte le rotte e dietro ai commerci venivano le idee, la cultura, le innovazioni. A Venezia nacque l’editoria grazie a Aldo Manuzio che vi inventò il libro portatile (oggi “tascabile”) e codificò la punteggiatura che ancora usiamo a distanza di cinquecento anni; dal Veneto si irradiarono in ogni dove Tintoretto, Giorgione, Tiziano, Canaletto, Tiepolo, Mantegna, Lotto, Carpaccio, Veronese, Da Ponte in pittura, lo scultore Canova, Palladio per l’architettura, l’incisore Piranesi, e Vivaldi, Albinoni, Galuppi, Lorenzo Da Ponte nella musica. Monsignor Della Casa ha scritto da queste parti il Galateo, Casanova ha codificato la seduzione, tra gli altri letterati si annidano Goldoni, Foscolo, Ruzante, Fogazzaro. E Marco Polo, Caboto e Pigafetta, che esplorarono il globo terracqueo?

Ecco, spirava un afflato di apertura al mondo. La stessa Serenissima, che meno democratica non si poteva, si era dotata di una tra le legislazioni più liberali del tempo e nella sua città-gioiello convivevano pacificamente etnie e religioni tra loro distantissime. Che estraneità i proclami autonomistici attuali, parlare di separazione, di prendere le distanze, di non aver nulla a che fare, o il poco burocratico indispensabile, con chi sta fuori. È un segnale di insicurezza trasmesso dalle dominazioni ottocentesche freneticamente succedutesi e coerente con la forte permeazione del cattolicesimo, che più di altre religioni abitua alla sottomissione, al fatalismo, al vada come deve andare tanto poi c’è una vita di scorta per riscattarsi. Sia come sia, il veneto orgoglioso della propria identità tanto meno netta quanto più contaminata è gradualmente degradato in macchietta, il poveraccio morto di fame, contadino ignorante tutto braccia e poco cervello votato alla sudditanza. Ci sarà un motivo se fino a pochi anni fa la servetta ossequiente dei film era veneta!

Tolta una parte della stagione repubblicana, diciamo quella di Mariano Rumor, il Veneto è divenuto politicamente insignificante, a seguito dell’opinione localmente accreditata che chi si dà al settore pubblico è uno svogliato, un parassita senza arte né parte, un poltrone. Lo sviluppo imprenditoriale impetuoso ha assorbito le migliori energie e i più brillanti talenti veneti dal ’60 in avanti e con immotivato stupore ci si è ritrovati totalmente non rappresentati nella pubblica amministrazione dai livelli massimi a quelli operativi e poi nella politica che conta. La Liga Veneta era prosperata sulla frustrazione di una ricchezza che si andava diffondendo scollegata dall’autorevolezza assente invece sullo scacchiere nazionale; è nata lì l’idea di una diversità che andava sbandierata per creare fratture anziché fruttifere interconnessioni, la condizione di un arroccamento soli-contro-tutti da città murata a dispetto della solidarietà espressa da un volontariato diffuso e nonostante l’internazionalismo portato dalle aziende locali lanciate alla conquista del mondo.

Per non tornare indietro, Zaia, senza lamentarsi delle risorse disponibili, le usi al meglio, anche perché tanto poche non sono come si evince dal suo report contabile pre-elettorale; invece di annunciare strappi, collabori con il Governo per il riconoscimento delle giuste istanze – lui stesso è stato ministro della Repubblica pur preferendo tornare anzitempo nel suo reame; piuttosto che reclamare la concessione di un’autonomia che riconosca le peculiarità venete, le valorizzi queste specificità e eccellenze come va di moda dire abusandone.

La sindrome dell’oppressore da cui emanciparsi è una cosa da servi, i popoli evoluti dovrebbero coltivare l’ambizione di acquisire una primazia basata sulla cultura e l’intelletto.

Zaia alle ultime elezioni ha confermato il suo strapotere personale ma se vuole che sia la Regione a spiccare, e non ancora e soltanto per i schei, lavori sulla cultura, formi menti, sforni artisti, sostenga iniziative che non rimandano a un Veneto folcloristico infarcito unicamente di mediocri recite vernacolari, sfilate alpine, fanfare pacchiane, mostre di formaggi, rievocazioni in costume con lance di cartone e corazze di stagnola, eviti insomma tutto ciò che ci riporta alla servetta anni ’50 anziché ai possibili Goldoni e Palladio del 2020.

Alessandro Zaltron

leggi il prossimo racconto